Sette storie per non dormire: Olivetti
La terza “storia per non dormire” che intendiamo raccontare è quella della Olivetti, l’azienda che per alcuni decenni consentì all’Italia di avere una presenza importante nell’industria informatica.
Negli anni Cinquanta Adriano Olivetti pose in essere un’iniziativa imprenditoriale lungimirante, inserendosi nel settore dei calcolatori elettronici quando questo genere di attività era appena sorto. L’investimento, tuttavia, si rivelò troppo oneroso per un’impresa a controllo familiare quale era la Olivetti, per di più impegnata anche in una costosa politica di espansione oltreoceano (nel 1959 rilevò l’americana Underwood). Da tale iniziativa, oltretutto, essa non fu in grado di ricavare da subito dei profitti apprezzabili, giacché gli sbocchi commerciali immediatamente reperibili per i calcolatori erano limitati dal disinteresse del governo italiano verso l’informatizzazione della pubblica amministrazione e dal ridotto numero di grandi imprese nazionali (la propensione di un’azienda a dotarsi di calcolatori dipendeva infatti dalle sue dimensioni, in ragione dell’elevato costo dei medesimi e del fatto che la loro utilità risultava tanto maggiore quanto più complessi erano i processi produttivi e amministrativi da essa gestiti).
Quando nel 1960 Adriano morì, la Olivetti versava pertanto in cattive condizioni. Questa situazione di crisi si protrasse per quattro anni, venendo poi risolta dall’intervento di una cordata che annoverava alcuni dei nomi di maggiore spicco dell’industria e della finanza nazionali (FIAT, Pirelli, la società finanziaria Centrale della famiglia Orlando, Mediobanca, IMI). La ritrovata stabilità finanziaria, tuttavia, non venne sfruttata per dare seguito alle iniziative intraprese dal defunto proprietario, in quanto il neocostituito gruppo di controllo preferì disfarsi della divisione elettronica piuttosto che immettervi ulteriori risorse. A sostenere con forza la necessità di uscire dal settore informatico fu il presidente della FIAT Vittorio Valletta, per il quale nessuna azienda italiana poteva affrontare gli investimenti necessari per operare in esso; il suo punto di vista, che pure non era supportato da alcuno studio sull’argomento, fu accettato senza obiezioni dagli altri esponenti della cordata, inclusi i rappresentanti dei due istituti finanziari pubblici (Mediobanca e IMI), i quali pertanto non apportarono alcun contributo positivo sul fronte gestionale.
L’abbandono delle attività informatiche avvenne gradualmente, ma comunque in tempi brevi. Nel 1964 la Olivetti Divisione Elettronica venne ceduta alla General Electric. L’anno successivo, tuttavia, la casa madre presentò un innovativo calcolatore da tavolo, sviluppato dai tecnici rimasti al suo interno (anche sulla base del lavoro compiuto dalla divisione elettronica prima della sua alienazione). Esso riscosse in principio un notevole successo, ma nel volgere di pochi anni l’affermazione delle calcolatrici giapponesi, che offrivano prestazioni simili a prezzi assai inferiori, ne decretò l’uscita dal mercato. Dacché la proprietà dell’azienda non aveva nel frattempo promosso la creazione di un nuovo prodotto, avente caratteristiche superiori, il fallimento di questa nuova esperienza segnò sostanzialmente la cessazione dell’impegno della Olivetti nella progettazione di calcolatori. Parallelamente, la sua scorporata divisione elettronica andò incontro a un rapido declino, non soltanto perché era divenuta un ramo periferico di una grande azienda straniera, ma anche perché quest’ultima si rivelò incapace di gestirla proficuamente; l’intera esperienza italiana in quell’ambito subì pertanto un arresto definitivo.
La vicenda della Olivetti sino al passaggio proprietario del 1964, a ben guardare, costituisce un caso analogo a quello della Montecatini: come quest’ultima, l’azienda di Ivrea era una società dotata di grandi capacità di ricerca e innovazione, non sorrette però da un’adeguata dotazione di risorse finanziarie. La carenza di capitali, tuttavia, non può essere fatta valere per spiegare, oltre alla crisi da cui fu investita sotto la gestione della famiglia fondatrice, anche le decisioni della successiva cordata proprietaria. Ci esprimiamo in tal senso non tanto in ragione del fatto che tale cordata assommava tre nomi di primo piano dell’imprenditoria nazionale (considerazione cui si potrebbe obiettare che gli Agnelli, i Pirelli e gli Orlando dovevano comunque immettere risorse anche nelle altre società di cui erano a capo, oltre che nella neoacquisita Olivetti), quanto piuttosto perché la sua capacità d’intervento era accresciuta dalla possibilità di mobilitare cospicue risorse pubbliche (quelle detenute dalle due banche controllate dallo stato che pure erano presenti al suo interno e quelle elargite dal governo alla Centrale in forma di indennizzi per le sue attività elettriche, nazionalizzate alla fine del 1962). La cessione della divisione elettronica e la successiva mancata valorizzazione delle competenze ancora presenti in azienda stanno quindi a testimoniare, più che l’impossibilità della grande impresa privata di operare nel settore, il suo disinteresse a farlo, riconducibile a una ristrettezza di vedute che la rendeva incapace di valutare le potenzialità di crescita dell’informatica (e quindi di comprendere i ritorni economici che a lungo termine avrebbero garantito gli impieghi di danaro in tale ambito) e che più in generale la induceva a prediligere strategie di sviluppo tese a minimizzare i rischi (e quindi a contenere gli investimenti).
La trattazione delle vicissitudini della Olivetti, tuttavia, non sarebbe completa se non accennassimo anche alle supposte responsabilità statunitensi. Anni orsono, uno studioso ha interpretato il comportamento dei nuovi proprietari della Olivetti riconducendolo a pressioni che il governo USA avrebbe esercitato su di loro, pressioni che sarebbero state recepite in ragione della riconoscenza nutrita dai maggiori imprenditori italiani nei confronti di quel paese, da cui avevano ricevuto cospicui aiuti economici nella fase postbellica (cfr. Marco Pivato, Il miracolo scippato, Donzelli, 2011). L’idea che degli imprenditori, nel prendere una decisione d’importanza strategica per il futuro di una propria società, si siano fatti condizionare da sentimenti di riconoscenza anziché dai loro interessi ci sembra tuttavia assai meno verosimile della spiegazione da noi concepita, consistente nella preferenza di tali soggetti per una strategia di sviluppo connotata da bassi investimenti. Se davvero la gestione del gruppo di controllo succeduto alla famiglia Olivetti scontò un’ingerenza nordamericana, è più plausibile che questa abbia assunto la forma di una pressione esercitata sull’esecutivo, cui sarebbe stato chiesto di non adoperarsi per rilanciare l’azienda. In merito a una simile ipotesi, però, va rimarcato in primo luogo che non vi sono evidenze che tale pressione vi sia stata, in quanto la passività di Mediobanca e IMI può essere spiegata anche adducendo influenze esercitate sui politici unicamente da forze nazionali (ossia dai soci privati della cordata rilevataria), e in secondo luogo che, se essa vi fu, potrebbe comunque non avere avuto un ruolo determinante nell’orientare gli eventi, in quanto potrebbe avere agito in combinazione con le spinte interne appena menzionate.
Al governo statunitense, in verità, sono state addebitate anche responsabilità più gravi dell’interferenza nelle scelte della nuova proprietà dell’azienda: si è infatti supposto che siano stati dei suoi agenti a provocare l’incidente stradale nel quale perse la vita, poco dopo la scomparsa di Adriano Olivetti, il capo della squadra di progettisti elettronici dell’azienda (cfr. sempre Pivato e anche Meryle Secrest, Il caso Olivetti, Rizzoli, 2020), e c’è chi si è spinto persino ad avanzare sospetti sulla morte dello stesso Olivetti, all’epoca imputata a una emorragia cerebrale (cfr. Secrest e anche Bruno Amoroso e Nico Perrone, Capitalismo predatore, Castelvecchi, 2014). Neppure tali ipotesi, però, risultano suffragate da elementi di prova o anche soltanto indiziari.
Questa presunta ostilità degli USA nei confronti della Olivetti è stata ricondotta a motivazioni di ordine sia economico che politico. Il governo di Washington, cioè, avrebbe agito per evitare che la Olivetti ascendesse al rango di serio concorrente dell’industria informatica statunitense, intaccandone così la posizione dominante a livello mondiale, oppure (ma si può anche pensare “e anche”) per scongiurare il rischio che tale impresa trasferisse a dei regimi socialisti le tecnologie che stava sviluppando, le quali, accrescendo enormemente la potenza di calcolo a disposizione, risultavano di grande utilità nel campo della ricerca militare. Tale trasferimento sarebbe potuto avvenire tramite la vendita dei propri prodotti oppure tramite attività di collaborazione; e a quest’ultimo riguardo va rilevato che il citato capo dei progettisti elettronici della Olivetti, l’ingegnere Mario Tchou, era italo-cinese, e che secondo un suo collega questi era stato contattato proprio dall’ambasciata cinese, in conseguenza del desiderio di quel paese di avviare propri studi nel settore informatico.
In assenza di elementi di prova, di queste teorie si può dare soltanto un giudizio inerente la loro plausibilità. La nostra opinione è che non si possa liquidarle come inverosimili, ma anche che neppure si possa dare per scontato che le possibilità di affermazione della Olivetti sul mercato internazionale fossero tali da minacciare il primato statunitense nel settore, o che paesi del blocco comunista avrebbero ricavato dall’intessitura di rapporti commerciali e di ricerca con l’azienda e i suoi uomini benefici non ottenibili altrimenti. Le potenzialità di crescita della Olivetti, infatti, a nostro avviso erano limitate all’origine dal fatto che essa non poteva contare su un committente dal peso paragonabile a quello del complesso industriale, amministrativo e militare statunitense. Quanto alla necessità dei paesi comunisti di rivolgersi ad essa per sviluppare un’industria informatica, il fatto che l’Unione Sovietica del 1960 avesse raggiunto importanti traguardi in settori tecnologicamente avanzati, quali l’aerospaziale e il nucleare, induce a ritenere non soltanto che potesse fare altrettanto in ambito informatico, ma anche che l’avesse già fatto, giacché simili realizzazioni presupponevano la disponibilità di un’elevata potenza di calcolo. Inoltre, l’URSS era disposta a condividere i frutti delle proprie ricerche con gli altri paesi comunisti: ad esempio, proprio la Cina poté contare sul supporto sovietico per lo sviluppo della propria tecnologia nucleare.
Qualunque posizione si assuma in merito a queste ipotesi, ci sembra comunque scorretta una visione che riconduca il fallimento dell’avventura informatica della Olivetti alla scomparsa di due sole figure, pur così importanti: abbiamo constatato che il passaggio dell’azienda dalle mani della famiglia al nuovo gruppo di controllo fu un evento in sé positivo, poiché la fece uscire da una situazione di crisi finanziaria, e che il suo gruppo di tecnici, pur gravemente depauperato (non soltanto a causa della morte di Tchou, ma anche in seguito alla cessione della divisione elettronica alla General Electric), riuscì a creare ancora un prodotto all’avanguardia. Tale fallimento, pertanto, scaturì essenzialmente dalla conduzione di politiche non lungimiranti da parte di soggetti nazionali, sia imprenditoriali che governativi; e dal momento che queste politiche sono riconducibili agli interessi di breve periodo dei nostri principali attori economici e alla subalternità a questi ultimi della classe di governo, altrettanto scorretta ci sembra una interpretazione di esso che faccia discendere gli eventi che lo determinarono prioritariamente o addirittura esclusivamente da manovre ordite oltreoceano. Del mancato sviluppo della fragile, ma promettente iniziativa di Adriano Olivetti va considerata perciò responsabile essenzialmente la classe dirigente nazionale.
Abbiamo scritto che il cattivo esito delle vicende narrate pose fine all’esperienza italiana nella progettazione di calcolatori. La Olivetti, tuttavia, fece ancora un tentativo di affermarsi quale costruttrice dei medesimi. Negli anni Ottanta, quando ne era divenuto proprietario Carlo De Benedetti, l’azienda si inserì con successo nel settore dei moderni personal computer. I buoni risultati conseguiti, però, si rivelarono effimeri, in quanto la concorrenza asiatica finì presto per porre fuori mercato i suoi prodotti, potendo contare su costi di produzione più bassi di quelli italiani. A tale concorrenza l’azienda d’Ivrea avrebbe potuto resistere soltanto qualora si fosse differenziata da essa sul piano della qualità dei prodotti e dei servizi ad essi collegati (in particolare, investendo nella realizzazione di programmi informatici e nell’assistenza ai clienti); ma ciò non poteva avvenire, in quanto la Olivetti operava, al pari delle rivali asiatiche, come semplice assemblatrice di componenti ideate e realizzate da altre imprese, essendo ormai venuta meno l’attività di ricerca che in passato le aveva consentito di proporre dei prodotti innovativi. Anche quel tentativo si risolse pertanto in un fallimento; e anche stavolta fu un fallimento figlio più della politica aziendale seguita che di una carenza di capitali, in quanto in quel decennio il gruppo De Benedetti fu in grado di effettuare cospicui investimenti, i quali però presero la forma non di un rafforzamento della Olivetti, bensì di acquisizioni di altre aziende, operanti in settori estranei l’uno all’altro. Evidentemente, De Benedetti preferì puntare a conseguire facili guadagni nell’immediato, sfruttando la capacità di creare ricchezza che le nuove aziende che acquisiva già avevano, piuttosto che impegnarsi nel rafforzamento di quelle di cui era già entrato in possesso. Questo atteggiamento, peraltro, negli anni Ottanta caratterizzò anche altri esponenti della nostra maggiore imprenditoria (a cominciare dagli Agnelli, i quali in quel decennio avviarono un processo di diversificazione che un po’ alla volta li avrebbe portati a disinteressarsi del settore automobilistico), sicché può essere ricondotto a più una generale tendenza del capitalismo privato italiano a rifuggire dalle strategie più impegnative (investimenti in ricerca e sviluppo, elevazione della qualità del prodotto, incremento della produttività degli impianti), benché fossero quelle suscettibili di risultare maggiormente proficue a lungo termine.
I nodi vennero al pettine all’inizio degli anni Novanta: l’Olivetti venne a trovarsi in una situazione di grave crisi finanziaria, che le impose una ristrutturazione delle proprie attività. Per sopravvivere, decise di spostarsi in un settore a bassa concorrenza quale quello della telefonia, nel quale le politiche di privatizzazione e di liberalizzazione stavano facendo sorgere inedite possibilità di azione. A metà del decennio diede vita alla Omnitel, un operatore di telefonia mobile; e nel 1997 acquisì i diritti di utilizzo della rete telefonica e telematica delle Ferrovie dello Stato, intorno alla quale creò un’azienda di telefonia fissa (Infostrada). Nel 1999 le due società furono vendute alla tedesca Mannesmann, mentre Olivetti acquisiva, ricoprendosi di debiti, Telecom Italia (e la sua controllata TIM, attiva nella telefonia mobile). Nel frattempo la proprietà dell’azienda passava da De Benedetti ad altri soggetti, i quali l’avrebbero poi ceduta a Pirelli e Benetton. Nel 2002 la Olivetti incorporò Telecom Italia, assumendo il nome di quest’ultima. Il nome Olivetti sopravvisse in una controllata del gruppo, che proseguiva la tradizionale attività di produzione di macchine per ufficio. L’azienda, comunque, aveva ormai cessato di fondare la propria esistenza sull’innovazione tecnologica: assumendo la comoda posizione di operatore telefonico, era divenuta una società dedita all’estrazione di rendite.

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