
L'Europa sottomessa... ma a chi? (Parte 1)
Attraverso l’Ucraina, gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra contro la Russia.
Attraverso la guerra contro la Russia, stanno conducendo una guerra contro l’Europa.
Promuovendo l’isolamento economico della Russia, gli USA hanno indotto l’Unione Europea a stabilire sanzioni che hanno ridotto le sue importazioni di idrocarburi da tale nazione. L’attentato al gasdotto Nord Stream, che con tutta probabilità è opera degli stessi Stati Uniti, ha ulteriormente compromesso l’afflusso di risorse energetiche dal suo territorio. Come se non bastasse, la Russia ha reagito alle sanzioni con delle misure ritorsive, consistenti nella limitazione delle proprie esportazioni di altre materie prime, in uso nell’industria e nell’agricoltura. Le imprese europee hanno dovuto così fare i conti con una penuria di molti prodotti di cui si servivano e con un rincaro dei loro prezzi, dovuto all’insorgere di fenomeni speculativi e alla sostituzione delle importazioni russe con altre meno a buon mercato (a cominciare dal gas di scisto statunitense, più costoso di per sé e reso ancora più caro dall’onerosità del trasporto via nave e dei trattamenti di liquefazione e rigassificazione cui va sottoposto).
L’industria continentale, quindi, si è ritrovata a produrre a costi più alti, con conseguente perdita di competitività sul versante dei prezzi cui era in grado di offrire i propri manufatti. Ciò l’ha resa interessata a valutare una delocalizzazione delle proprie attività in altre nazioni, ancora in grado di offrire energia a basso costo e magari dotate di condizioni più favorevoli anche sotto altri aspetti (ad esempio: minori tutele per i lavoratori e normative ambientali meno rigide). Fra i paesi a possedere tali requisiti c’erano proprio gli Stati Uniti, che oltretutto presentavano la caratteristica di costituire un importante mercato di sbocco per le produzioni europee. Con ammirevole tempismo (nello stesso 2022 in cui sono scoppiati la guerra prima e il Nord Stream poi), l’amministrazione Biden ha varato un provvedimento, l’Inflation Reduction Act, che sembrava pensato proprio per favorire questa migrazione di industrie: esso infatti, elargendo generosi sussidi alle aziende operanti in patria, ha offerto agli imprenditori europei un ulteriore incentivo ad affrontare le spese connesse a una rilocalizzazione al di là dell’Atlantico delle proprie strutture produttive. Vedremo negli anni a venire quale portata assumerà tale fenomeno; certo è che questa combinazione di fattori costituisce una spada di Damocle pendente sulle teste delle classi lavoratrici e delle economie europee.
Tutto chiaro, insomma: Biden (o chi per lui, date le sue condizioni di salute) prima provoca la Russia, sventolandole sotto il naso il drappo rosso dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO; quindi sfrutta la guerra per ottenere la rottura dei rapporti commerciali fra Europa e Russia (lo stesso attentato al Nord Stream, collocato in questo contesto bellico, ha potuto essere convenientemente attribuito agli ucraini) e mettere così in crisi la nostra industria; infine rende gli Stati Uniti più attrattivi per le imprese europee, ovvero offre una soluzione al problema da lui stesso creato.
Perché questa politica antieuropea? La risposta è che gli USA, in buona sostanza, non hanno più un’industria. A partire dagli anni Ottanta, un ceto politico dominato dalle lobby imprenditoriali ha consentito che queste trasferissero la produzione manifatturiera in Messico, nel Sud-Est asiatico, infine in Cina, nell’intento di gonfiare i propri profitti tramite l’abbattimento del costo del lavoro. Ma una nazione non può sopravvivere senza industria. Non soltanto e non tanto perché la sua classe lavoratrice si riduce a vivere di lavoretti, in uno stato di semipovertà che genera disagio psichico, dipendenze, criminalità (in fondo, dei lavoratori a chi importa?); ma anche e soprattutto perché lo stato, per effetto dell’impoverimento della classe media, si ritrova privo di una adeguata base imponibile (a meno che non sia disposto a tassare pesantemente i ricchi, ipotesi fuori discussione negli Stati Uniti) ed è costretto a coprirsi di debiti. Gli USA hanno fatto esattamente questo: il loro debito pubblico, che nel 1980 era pari all’incirca al 40 per cento del PIL, alla vigilia della grande crisi finanziaria del 2008 era già salito all’80 per cento; le due grandi crisi (contando anche quella da Covid) hanno poi favorito una sua ulteriore e più rapida lievitazione, che l’ha portato nel 2024 sopra la soglia del 120 per cento. Un simile andamento è sostenibile? Forse sì, se il dollaro continuasse ad essere la moneta del commercio internazionale: in tal caso, difatti, la necessità di possedere dollari da scambiare istigherebbe le altre nazioni ad acquistare titoli di debito USA, per incassarne i rendimenti (denominati per l’appunto in dollari). Il problema è che l’egemonia del dollaro, nel futuro anche prossimo, non può essere data per scontata: l’ascesa della Cina al rango di “fabbrica del mondo”, innescata proprio dalle delocalizzazioni statunitensi (e proseguita grazie all’accorta pianificazione del governo di Pechino, che ha fatto sorgere anche delle grandi imprese a capitale nazionale), ha posto questo paese al centro di enormi flussi di merci, materie prime e capitali, che esso potrebbe decidere di gestire senza fare ricorso alla moneta statunitense. Insomma, la persistenza della supremazia del dollaro dipende ormai dalla benevolenza del Partito Comunista Cinese... sapendo questo, riuscireste a dormire sonni tranquilli, se foste nei panni dell’inquilino della Casa Bianca?
Dunque, l’industria americana va ricostruita. E il modo più semplice per farlo è andare a prendere delle industrie già esistenti. In Europa, ovviamente; perché non sarà mai possibile far rientrare quelle che i capitalisti statunitensi hanno portato in Cina. La Cina, infatti, offre alle imprese dei vantaggi incolmabili (in termini non solo di costi, ma anche di disponibilità di operai e tecnici); e tali vantaggi non possono venire cancellati in qualche modo, perché gli USA non possono imporle di sanzionare la Russia o far saltare impunemente il gasdotto Power of Siberia, che le porta il gas russo.
La questione del rilancio industriale, peraltro, non deve fare passare in secondo piano l’altro vantaggio derivante da questa politica: la possibilità di esportare in Europa il gas americano. Oggi gli Stati Uniti hanno una bilancia dei pagamenti con l’UE in sostanziale pareggio, in quanto le importazioni dei nostri manufatti sono compensate dalla presenza nel vecchio continente dei fondi azionari e delle imprese di servizi informatici statunitensi, che vi fanno profitti e poi li riportano in patria. Accrescendo le proprie esportazioni di materie prime proprio mentre riducono le importazioni di manufatti, gli USA potrebbero alterare a proprio vantaggio tale bilancia in misura significativa: a quel punto comincerebbero a drenare risorse dall’Europa, arricchendosi a sue spese.
Sia chiaro: non stiamo sostenendo che il saccheggio delle industrie e dei capitali europei costituisca l’unica ragion d’essere della guerra alla Russia. Ogni guerra americana trova una sua giustificazione ulteriore in se stessa, in quanto fonte di lucrose commesse per il famigerato “complesso militare industriale”. Inoltre, è credibile che anche la Russia sia stata vista dall’amministrazione Biden come un territorio da spogliare delle sue ricchezze. L’obiettivo doveva essere quello di infliggerle una sconfitta così umiliante da indurre la popolazione russa a rovesciare il ceto politico putiniano e ad affidarsi a elementi filo-occidentali, i quali, per ripristinare relazioni amichevoli con gli USA, avrebbero consentito alle loro imprese di assumere la gestione delle enormi risorse naturali del paese. Si sarebbe così creato un altro flusso di capitali diretto verso gli Stati Uniti, generato dai profitti realizzati dalle società americane operanti in Russia.
Infine, attaccare la Russia era anche un modo per colpire indirettamente la Cina, la quale era ormai divenuta, per effetto della sua ascesa economica, la più temibile minaccia all’egemonia globale degli USA. Su questo argomento, però, vi sarebbe molto da dire, ragion per cui preferiamo lasciarlo da parte, ripromettendoci di dedicarvi un articolo a sé stante.
Ora riprendiamo la nostra sintetica ricostruzione storica. Dopo Biden arriva Trump, il quale è espressione di una fazione della classe dirigente statunitense dotata, rispetto a quella prima al potere, di una visione più realistica dello stato di forma del paese: per essa l’aggressiva politica bideniana non è suscettibile di piegare la Russia e rischia di risultare controproducente sul piano dei rapporti di forza tra USA e Cina. Infatti gli Stati Uniti, a loro avviso, non sono abbastanza forti da poter condurre con successo la tentata azione di logoramento della Russia, e neppure sono in grado di condurla senza perdere capacità di esercitare, nel medesimo tempo, un’efficace azione di contenimento militare della Cina.
Dunque, Trump inizia una faticosa opera di ricucitura con Putin. La fine della guerra russo-ucraina, però, con tutta probabilità porterà alla cancellazione delle sanzioni: Putin senz’altro porrà questa condizione, e si dà il caso che Putin sia in grado di dettare le sue condizioni agli occidentali, dal momento che la guerra la sta vincendo. Poco male: mentre tratta col Cremlino, Trump si premura di imporre dazi sulle importazioni dall’Europa, che ne mineranno la competitività anche nel caso del ritorno nel continente del gas russo a basso costo. Già che c’è, strappa al Presidente della Commissione europea (l’ineffabile Ursula Von Der Leyen) l’impegno da parte dell’UE ad acquistare armi e materie prime energetiche americane, nonché ad effettuare cospicui investimenti in territorio statunitense. L’effettiva applicabilità di questi accordi è abbastanza dubbia (l’Unione Europea non è uno stato e tantomeno uno stato di tipo socialista, nel quale il governo può ordinare alle imprese dove effettuare i propri acquisti e i propri investimenti); ma intanto il principio è stato fatto passare (il principio, cioè, che l’Europa debba svenarsi per sostenere l’economia statunitense). E comunque l’Inflation Reduction Act è rimasto in vigore, ragion per cui, per attrarre gli investimenti europei, gli USA possono tuttora contare su una carota, oltre che su un bastone.
Questa ricostruzione potrebbe essere giudicata un’analisi esaustiva degli eventi degli ultimi anni... se in essa non vi fosse un grosso buco nero, ovvero qualcosa che rimane senza spiegazione: l’atteggiamento dei governi europei. Perché questa sottomissione incondizionata ai voleri statunitensi? Perché hanno varato sanzioni che ci penalizzano, hanno fatto spallucce di fronte al sabotaggio del Nord Stream, hanno accettato senza sostanziali reazioni la svolta protezionista di Trump? A proposito dei dazi trumpiani, va fatto notare che l’Europa era in grado di contrastarne l’imposizione minacciando una ritorsione temibile, ovvero la tassazione delle attività statunitensi condotte nel nostro continente. Una possibile spiegazione è che i nostri governanti non siano altro che delle marionette nelle mani degli apparati governativi e di sicurezza d’oltreoceano, i quali ne avrebbero assunto il controllo tramite la corruzione o il ricatto (i servizi segreti statunitensi hanno il vizietto di spiare i politici europei, quindi delle loro faccende private ne sanno parecchio), o addirittura li avrebbero gestiti sin dall’inizio della loro carriera (sì, stiamo proprio avanzando l’ipotesi che i leader europei non siano altro che degli agenti americani, infiltratisi nei principali partiti per farvi carriera sino ad assumerne la direzione). Essa, tuttavia, non risulta soddisfacente, per le ragioni che ora illustreremo.
Nell’articolo “Perché comandano i ricchi” abbiamo rilevato come in Europa si sia determinata un’accentuata subordinazione delle classi politiche ai principali rappresentanti del potere economico. Tale subordinazione avrebbe dovuto consentire alla grande imprenditoria europea di prendere parte alla selezione delle prime o comunque di influenzarne in misura significativa le decisioni; e quindi avrebbe dovuto far sì che i condizionamenti provenienti dagli USA fossero contrastati da altri, orientati alla tutela delle economie continentali. Perché ciò non si è verificato? Potremmo supporre che proprio la sensibilità dei politici europei alle pressioni lobbistiche sia responsabile di ciò: ovvero che essi siano stati condizionati dall’azione congiunta del potere politico e del potere economico statunitense (il secondo rappresentato dai produttori energetici e di armamenti, grandi beneficiari della situazione che si è creata), la quale avrebbe assunto una forza tale da soverchiare l’influenza che riuscivano ad avere su di loro gli operatori economici del vecchio continente.
Questa rappresentazione di una lobby imprenditoriale europea messa all’angolo dalla sua equivalente statunitense, tuttavia, non suona convincente, in quanto, se le cose fossero andate in tal modo, le scelte ad essa sfavorevoli avrebbero comunque suscitato delle combattive, per quanto minoritarie, prese di posizione critiche, promosse ovviamente dalla medesima. Invece tali scelte non hanno incontrato un’opposizione degna di nota, né in ambito politico né in ambito mediatico (i media cosiddetti “mainstream”, ampiamente controllati dal potere economico, hanno silenziato o demonizzato qualunque accenno di critica alle politiche antirusse; solo quando sono arrivati i dazi di Trump si sono permessi qualche mugugno); è come se l’imprenditoria europea non fosse stata soltanto sopraffatta da altri soggetti nella lotta per l’affermazione dei rispettivi interessi, ma non fosse neppure riuscita a fare presenti i propri. Tale imprenditoria, insomma, sembra avere sofferto di una capacità d’influenza non insufficiente, ma addirittura nulla: il che tuttavia non è credibile.
Ma ammettiamo pure che i governanti europei abbiano risposto in via esclusiva agli interessi americani. Concesso ciò, rimane comunque una contraddizione da spiegare. I maggiori lobbisti statunitensi sono i grandi fondi d’investimento, che hanno il sostanziale controllo delle grandi imprese nazionali di ogni comparto. Questi fondi, però, sono presenti anche in Europa, possedendo pacchetti azionari di banche e industrie. Una classe politica europea obbediente a tali operatori finanziari potrebbe mai volere danneggiare delle aziende in cui essi hanno investito?
Considerata la questione sotto questi diversi punti di vista, si deve allora necessariamente giungere alla conclusione che segue, per quanto strana possa apparire: evidentemente, i rappresentanti del grande capitalismo europeo hanno approvato le politiche che hanno danneggiato l’economia europea. E' possibile una cosa del genere? Sì, lo è. Noi siamo abituati a ragionare in termini di “interesse nazionale”; ma la società è composta da gruppi sociali diversi, aventi interessi a volte divergenti, quando non contrapposti, ragion per cui può avvenire che una linea politica penalizzante per la maggior parte della popolazione (e quindi suscettibile di avere un impatto complessivamente negativo sull’economia) risulti comunque favorevole alla rimanente frazione di essa. E se tale frazione coincide con la componente della cittadinanza dotata di maggiore influenza sul ceto di governo, allora può benissimo accadere che un governo scelga di portare avanti proprio quella linea.
Nella seconda parte di questo articolo vedremo come il ragionamento ora condotto possa venire proficuamente usato come chiave interpretativa delle politiche europee dell’ultimo triennio. Vedremo, cioè, come i nostri governanti si siano mossi contro l’economia europea non perché sottomessi al grande capitale statunitense, che li starebbe usando come propri agenti contro il grande capitale europeo, ma perché sottomessi al grande capitale statunitense ed europeo.
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