L'Europa sottomessa... ma a chi? (Parte 2)

Abbiamo concluso la prima parte di questo articolo promettendo di dimostrare che la politica condotta a partire dal 2022 dalle nostre élite politiche, benché lesiva degli interessi europei complessivamente intesi, non è risultata contraria a quelli delle nostre élite economiche. Cominciamo dunque la nostra analisi, prendendo in esame innanzitutto gli effetti immediatamente riscontrabili di tale politica nei diversi ambiti dell’economia:

- finanza d’investimento: i fondi d’investimento energetici, operanti sulla borsa del gas di Amsterdam, hanno potuto sfruttare le incertezze create dagli eventi per gestire la compravendita di questa materia prima con modalità speculative, ossia rivendendola alle imprese energetiche a prezzi gonfiati rispetto a quelli cui riuscivano ad accaparrarsela;

- produzione di energia elettrica tramite gas e distribuzione di elettricità e gas: le società del settore hanno approfittato dell’impossibilità degli utenti di fare a meno dei loro servizi per compensare l’incremento del costo della materia prima tramite incrementi dei prezzi delle loro forniture. In effetti, sfruttando il pretesto della crisi internazionale in atto, hanno potuto far lievitare le proprie tariffe addirittura più di quanto fosse necessario per compensare il rialzo dei costi di approvvigionamento del gas;

- altri servizi essenziali: come gli operatori sopra citati, quelli degli altri settori terziari hanno innalzato i propri prezzi più di quanto fosse necessario per compensare la crescita che hanno subito i costi energetici;

- settore manifatturiero: gli operatori di vari ambiti, a loro volta, hanno aumentato i propri prezzi più di quanto avessero bisogno di fare per compensare la crescita dei prezzi delle forniture energetiche e di talune materie prime impiegate nei processi produttivi;

- servizi bancari: le banche hanno visto aumentare la richiesta di prestiti e mutui (cui la popolazione, impoverita dal rialzo del costo della vita, ha dovuto fare maggiormente ricorso) e hanno potuto ricavare maggiori profitti dalla loro concessione (giacché hanno innalzato gli interessi sui prestiti, oltretutto lasciando sostanzialmente invariati quelli sui depositi). [1]

Come si vede, i principali operatori economici hanno colto l’occasione della crisi internazionale per porre in essere rialzi di prezzo di portata tale da incrementare i loro margini di profitto. Tali pratiche, naturalmente, sono state rese possibili dalla scelta dei governi di mantenere nei riguardi delle medesime un atteggiamento acquiescente, invece di contrastarle con attività di sorveglianza e regolazione finalizzate a proteggere i consumatori. Il mistero della mancata opposizione di tali soggetti alle politiche autolesionistiche che hanno investito l’Europa sembra dunque già risolto. Tuttavia, non possiamo fermare qui la nostra analisi. La situazione dei produttori manifatturieri, difatti, va analizzata più in profondità. Essi possono anche avere accresciuto i propri profitti unitari, ma l’impoverimento dei cittadini europei scaturito dalla crescita del costo dei servizi essenziali ha inciso negativamente sulla domanda interna all’UE dei beni di consumo, nuocendo pertanto al volume complessivo dei profitti stessi. Inoltre, aumentando i propri prezzi essi hanno perso competitività nei confronti dei loro rivali asiatici, che hanno quindi acquisito la possibilità di sottrarre loro quote del mercato europeo. Ancora, la necessità di vendere a prezzi più elevati, sulla quale da ora in avanti incideranno anche i dazi, rischia di costare loro la perdita di molti clienti sul mercato americano, che per le imprese europee ha una notevole importanza. Insomma, vi sono delle buone ragioni per ritenere che per gli operatori del manifatturiero le politiche dell’ultimo triennio abbiano assunto davvero una valenza negativa. Ma allora perché non le hanno contrastate?

La risposta è che i governi e gli stessi operatori economici hanno la possibilità, nel prossimo futuro, di rimediare ai danni che tali politiche hanno procurato nell’immediato, agendo per diverse vie. Innanzitutto, le industrie europee potrebbero decidere di abbandonare l’Europa. Abbiamo visto come gli Stati Uniti offrano incentivi volti a incoraggiare il trasferimento della produzione oltreoceano. E ci sono anche altri paesi dove potrebbe essere vantaggioso delocalizzare: paesi, magari, colpiti anch’essi dai dazi di Trump, ma che in termini di costi energetici e di altra natura (da quelli salariali a quelli generati dalle normative ambientali) assicurano vantaggi tali da annullare la penalizzazione indotta dalle barriere tariffarie. Possiamo dare per scontato che i nostri governi si guarderanno dal limitare la libertà decisionale degli azionisti (d’altronde, c’è anche la questione dell’impegno a investire negli USA preso dalla Von Der Leyen...), ragion per cui appare estremamente verosimile che questa migrazione si verificherà davvero.

Beninteso, la soluzione della delocalizzazione comporterà un costo da pagare: l’ulteriore contrazione del mercato europeo indotta dall’incremento della disoccupazione. Va considerato, però, che ai posti di lavoro distrutti in Europa ne corrisponderanno altri sorti negli USA o altrove, che influiranno positivamente sulla domanda locale dei beni prodotti dalle imprese trasferitesi. A fare le spese di questi spostamenti, pertanto, saranno soltanto i popoli europei.

Ma c’è di più: nel lungo periodo, i titolari delle maggiori industrie potrebbero avere la possibilità di non risultare danneggiati dalla situazione che si è determinata persino rimanendo in Europa.

Dicevamo che i governi europei non si permetteranno di ostacolare la partenza delle imprese. Prevediamo, però, che cercheranno di offrire loro degli incentivi a non trasferirsi, consistenti in cospicui sussidi e sgravi fiscali, funzionali a ripristinare la competitività di prezzo delle loro produzioni. In linea di principio, tali risorse saranno rivolte all’intero apparato industriale, ma nei fatti - anche questa ci pare una facile previsione - verranno assegnate in base alla capacità di lobbing detenuta dalle diverse aziende: il che vuol dire che ad accaparrarsele saranno soprattutto i grandi complessi industriali. Invece i produttori minori resteranno privi di adeguate tutele; questa discriminazione, unita al fatto che la loro stessa minore forza finanziaria li renderà particolarmente esposti alla crisi, causerà il fallimento di molti di essi. In ragione di ciò, per un verso il mercato europeo andrà restringendosi, a causa della diffusa perdita di reddito e di occupazione, ma per l’altro i grandi operatori vedranno migliorare la propria posizione relativa all’interno di esso: costoro, per intenderci, potrebbero passare dall’intercettare il 60 per cento di 100 (intendendo con “100” la capacità di spesa pre-crisi della popolazione europea) al detenere l’80 per cento di 80 (che sarebbe già abbastanza per guadagnarci: provate a fare i conti).

Inoltre, il sostegno all’Ucraina offrirà all’UE una giustificazione per promuovere il potenziamento del comparto industriale militare. Nell’Europa futura, pertanto, acquisterà importanza una forma di attività imprenditoriale del tutto dipendente dallo stato (emanatore di commesse da un lato e di sussidi dall’altro), dunque monopolizzata dalla élite imprenditoriale dotata di maggiore ascendente sul mondo politico. Rendetevi conto che questa, per essa, è un’eccellente prospettiva: produrre per lo stato è meglio che produrre per le masse di consumatori, le quali hanno il vizio di guardarsi intorno prima di scegliere (gettando l’occhio sino alla Corea o alla Cina) e di cambiare marca se rimangono insoddisfatte dall’acquisto. Poi, le armi sono la merce più redditizia: il loro impiego ne causa subito o in breve tempo la distruzione, imponendone la sostituzione con ulteriori acquisti. Certo, se rimangono accatastate in un deposito il discorso è diverso; ma finché l’Ucraina continuerà a funzionare, per la produzione bellica occidentale, come un buco nero il problema non si porrà.

Ricapitolando: i grandi imprenditori manifatturieri avranno la possibilità di separare i propri destini da quelli dei paesi d’origine, cercando altrove maggiori opportunità di guadagno, nonché di fare leva sul loro peso politico per concentrare nelle proprie mani quelle residue esistenti in patria, di rafforzarsi in un ambito, quale quello militare, dove non esiste un vero “mercato” e di mantenere artificiosamente la propria competitività internazionale tramite iniezioni di denaro pubblico. Le condizioni perché questo avvenga si stanno già determinando (pensiamo all’Inflation Reduction Act o ai progetti di riarmo europei). Pertanto, essi hanno la ragionevole sicurezza che nei prossimi anni i loro profitti torneranno ai livelli pre-crisi o addirittura supereranno questi ultimi. Se a tale considerazione aggiungiamo il fatto che i titolari delle maggiori industrie sono investitori che operano anche in ambiti non manifatturieri (e che pertanto stanno già traendo vantaggio dalla crisi in atto, secondo le modalità prima esposte), allora anche l’acquiescenza di tale frazione del capitalismo europeo risulta comprensibile.

La situazione che si è creata, dunque, è senz’altro potenzialmente disastrosa per l’economia e per i popoli europei, ma non lo è necessariamente per i grandi detentori di capitali del vecchio continente. Siamo così pervenuti a una prima spiegazione del fatto che il ceto politico continentale abbia assecondato le politiche antieuropee degli USA, pur essendo pesantemente influenzato nelle sue decisioni dagli interessi del capitale europeo: quelle politiche non gli hanno impedito e non gli impediranno di continuare a proteggere questi ultimi.

La credibilità della nostra interpretazione risulta ancora maggiore se facciamo un piccolo salto indietro nel tempo e riconsideriamo gli eventi del 2020-21. Anche al tempo della pandemia i governi hanno preso delle misure che hanno danneggiato gravemente l’economia. Non staremo ora a discutere se fossero giuste, eccessive o sbagliate alla radice; il fatto è che gli esponenti dell’imprenditoria in grado di fare pressione perché fossero attenuate o limitate nel tempo, insomma modulate in modo da ridurre il sacrificio chiesto alle attività economiche, non si sono mossi. Perché? La risposta è che, in quel frangente come oggi, essi hanno visto nella crisi un’opportunità. Da una parte, difatti, ha offerto loro occasioni di profitto (vi ricordate le mascherine prodotte dalla Fiat?); dall’altra, ha messo in ginocchio gli operatori economici più piccoli. D’altronde, una crisi economica crea di per sé le condizioni per una maggiore concentrazione dei capitali, e in generale della ricchezza presente nella società. Se poi i decisori politici si premurano di tutelare maggiormente i soggetti più forti invece di quelli più deboli, questo effetto risulta amplificato.

C’è un’ulteriore considerazione che va fatta. Come abbiamo già accennato nella prima parte dell’articolo, appare plausibile che gli Stati Uniti si siano impegnati nel confronto con la Russia anche allo scopo di destabilizzarla e di arrivare per questa via a soggiogarla, oltre che sul piano politico, su quello economico: crediamo, cioè, che l’amministrazione Biden abbia sperato che l’onta della sconfitta militare e i danni arrecati dalle sanzioni potessero indurre la popolazione russa a rovesciare il ceto politico putiniano e ad affidarsi a elementi filo-occidentali, disposti, pur di ripristinare relazioni amichevoli con la nostra parte di mondo, a consentire una forte penetrazione delle imprese statunitensi nell’economia del loro paese. Ebbene, secondo noi anche le classi dirigenti europee hanno ragionato in questi termini. La nostra grande imprenditoria, quindi, deve avere accettato di assecondare la politica antirussa statunitense anche perché riteneva che, se l’Europa fosse rimasta subordinata agli USA, avrebbe avuto l’opportunità di partecipare al saccheggio delle immense risorse della Russia che tramite quella politica la presidenza Biden puntava a realizzare. Questo progetto politico, ovviamente, si è rivelato fallimentare; ma ora i capitalisti europei non possono più tornare indietro. Sì, ora hanno bisogno della guerra contro la Russia, per giustificare il potenziamento dell’apparato militare e quindi la valanga di commesse e sussidi che l’industria deve ricevere per rifarsi delle perdite che per il momento sta subendo. Ciò spiega come mai, quando Trump ha cominciato a dialogare con Putin, i governi europei non si siano accodati di buon grado, ma all’opposto siano rimasti fermi sulle posizioni assunte al tempo di Biden.

Ancora un’altra cosa. Abbiamo individuato, all’origine dell’aggressività statunitense verso l’Europa, la necessità di rimediare a una condizione economico-finanziaria gravemente compromessa. Ebbene, dobbiamo ritenere che questa esigenza sia stata compresa e sia condivisa dalle classi dirigenti europee. Ciò in ragione dell’importanza della piazza finanziaria statunitense quale destinazione degli investimenti europei. I nostri capitalisti, insomma, devono essersi detti che non potevano permettersi di lasciare andare a fondo gli Stati Uniti. In fin dei conti, per essi quello che si è determinato è stato un compromesso accettabile. L’Europa si dissanguerà per tenere in piedi l’economia americana, ma i profitti dei maggiori imprenditori europei verranno comunque tutelati. Questi, così, trarranno i frutti dell’operazione di salvataggio dell’economia americana, ma non ne pagheranno il prezzo.

A questo punto, possiamo tirare le somme e provare a dare una lettura complessiva degli eventi di questi ultimi anni. Il governo americano, per sostenere la sua economia, è andato all’attacco di quella europea. La classe politica europea non ha potuto opporsi a questa sua decisione, non soltanto perché sensibile alle pressioni delle lobby imprenditoriali statunitensi, ma anche perché condizionato da quelle europee, che avrebbero risentito di un collasso dell’economia statunitense. Queste ultime, però, ovviamente pretendevano che l’impoverimento dell’Europa a vantaggio degli USA avvenisse secondo modalità tali da non penalizzarle. Occorreva quindi contemperare gli interessi delle une con quelli delle altre. A ciò in parte hanno provveduto gli stessi Stati Uniti, stabilendo condizioni favorevoli al trasferimento oltreoceano delle nostre imprese manifatturiere, e in parte i governanti europei, con i loro piani di riarmo e la loro acquiescenza dinanzi ai comportamenti approfittativi e speculativi messi in atto da banche e altri soggetti finanziari. A far credere ai nostri capitalisti che nel lungo periodo il rapporto tra costi e benefici dell’accettazione della strategia statunitense sarebbe stato favorevole ai secondi, inoltre, hanno contribuito la certezza di poter contare su cospicui sostegni pubblici, le prospettive di selezione darwiniana delle imprese conseguente alla crisi e il miraggio della spoliazione delle risorse russe.

Questa ricostruzione funziona; possiamo arricchirla, però, di un ulteriore elemento, che pone in relazione gli eventi del 2020-21 con quelli più recenti. Un capitalismo occidentale dappertutto in difficoltà, a causa dell’ascesa della Cina, ha visto nell’emergenza Covid l’occasione per introdurre nell’economia fattori di crisi ed elementi di dirigismo utili a rilanciare i profitti degli operatori maggiori, tramite lo sfoltimento dell’habitat economico dalle imprese più piccole e la rapina dei redditi e patrimoni del ceto medio. Non era possibile, tuttavia, far durare ancora a lungo quella situazione di paura che aveva reso accettabile una profonda deviazione dal nostro modo di vivere consueto. Per questa ragione, quando nel 2022 le tensioni USA-Russia sono deflagrate, in Europa il coinvolgimento nel conflitto è stato visto come un’occasione per sostituire a un’emergenza ormai logora un’altra nuova di zecca. Anche questo fattore deve avere contribuito ad allineare gli europei agli americani.

In estrema sintesi, possiamo ricapitolare le nostre argomentazioni nel modo seguente. E' indubbio che gli USA, in questi ultimi anni, abbiano perseguito i propri interessi politici ed economici a spese dell’Europa, agendo in modo da allontanarla dalla Russia, da farne un mercato per il proprio gas e da rafforzarsi industrialmente a sue spese; essi tuttavia hanno potuto contare, ai fini del perseguimento dei propri disegni, sulla condiscendenza delle classi dominanti europee, le quali pertanto nella vicenda ucraina hanno assunto il ruolo non di vittime, bensì di alleate (sia pure, diciamo così, in posizione subordinata) di quella statunitense. Tale atteggiamento si spiega col fatto che i massimi esponenti continentali del potere economico hanno ritenuto di poter ricavare dei benefici dalla salvaguardia dell’economia statunitense, dalla situazione di crisi che è andata determinandosi in Europa e dalle politiche di gestione della crisi stessa da parte dei governi continentali. Pertanto il comportamento dei nostri decisori politici, che valutato in rapporto ad astratti e onnicomprensivi “interessi nazionali” appare incomprensibile, alla luce di queste considerazioni risulta invece del tutto logico: essi hanno agito in conformità alle esigenze dell’insieme dei più forti gruppi di pressione economici (europei o statunitensi che fossero), sacrificando alle medesime gli interessi delle componenti sociali che non rientravano in quella ristretta cerchia di soggetti influenti (vale a dire quelli di tutti i ceti dalla piccola imprenditoria in giù).

E' tutto? Ebbene... no, ancora non è tutto. Aggiungiamo anche che far calare sulla società europea un plumbeo clima di guerra imminente (“Se non lo fermiamo, Putin arriverà sino a Lisbona!”) offriva l’opportunità di irregimentare la società, limitando le nostre libertà civili. Un’opportunità del genere si era già determinata nel periodo dell’emergenza Covid; ed evidentemente le nostre classi dirigenti l’avevano molto apprezzata, tanto da volere concedersi un bis. Come abbiamo già rilevato, la guerra in Ucraina è capitata a proposito, giusto nel momento in cui la fiducia nella veridicità della narrazione pandemica - o semplicemente la capacità di sopportare le restrizioni imposteci - stava cominciando a scemare. Non era un treno che si potessero far scappare. Tanto più che il prezzo del biglietto potevano farlo pagare a noi.


Nota

[1] In merito a quanto riportato cfr. QUI, QUI e QUI.

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