La fine dell'età della (falsa) innocenza
[ N.B.: Questo articolo è abbastanza diverso dai precedenti. Si tratta più che altro di uno sfogo personale, anche se comunque utile - o almeno lo spero - a suscitare qualche riflessione. Coerentemente con i suoi contenuti, anche lo stile si distacca da quello usuale, risultando, per così dire, meno paludato. Può darsi che in futuro ne pubblichi altri dello stesso tenore, ma di certo non lo farò nei prossimi mesi, che intendo dedicare a questioni di storia economica. ]
Il periodo della pandemia è stato per molti uno spartiacque fra un prima e un dopo, un salto del fosso che separa l’integrazione dal dissenso. Tanti che guardavano alle istituzioni senza farsi delle illusioni sulla loro efficienza e sollecitudine verso i cittadini, ma comunque senza considerarle alla stregua di briganti acquattati nell’ombra con un coltello fra i denti, hanno sperimentato sulla propria pelle quanto male siano capaci di fare. E tanti, che mai avrebbero condiviso la concezione marxista dello stato quale “comitato d’affari della borghesia”, hanno scoperto a proprie spese quanto profonda sia la sudditanza dei governanti verso i massimi rappresentanti del potere economico.
Ricordo bene quel periodo. Un proliferare di voci sui siti internet, sui social media, sui canali Youtube. L’erompere di sentimenti di indignazione e sgomento. “Ma come? Il COVID è pericoloso soltanto per un’esigua minoranza della popolazione (in buona sostanza, le persone anziane e indebolite da altre malattie), ma dobbiamo vaccinarci tutti? E con dei vaccini che, col pretesto di questa asserita emergenza, sono stati approvati in fretta e furia, senza sottoporli alle normali procedure di sperimentazione? E se ci rifiutiamo, perdiamo il diritto di lavorare, spostarci, avere una normale vita sociale? E se ci sottomettiamo a questo ricatto, dobbiamo firmare un pezzo di carta in cui dichiariamo che abbiamo offerto il braccio liberamente, in modo da sgravare da qualsivoglia responsabilità tutta la filiera decisionale e operativa (dai produttori ai politici ai medici)? E se ci permettiamo di discutere queste imposizioni siamo bollati come ignoranti, criminali e folli, veniamo additati al pubblico ludibrio e minacciati, ci si augura una morte atroce?”
Da quell’esperienza scioccante è scaturita una vera e propria rivelazione. Un po’ come accade al ragionier Fantozzi (mi si perdoni il paragone irriverente) nel finale del primo film della saga, quando acquista consapevolezza della propria condizione di sfruttato. In quel frangente, il ragioniere erompe in un incontenibile “Ma allora mi hanno sempre preso per il culo!” Nel caso dei dissidenti della politica vaccinale, immagino che il grido di rabbia sia stato un po’ più circostanziato. Mi sarebbe piaciuto assistere a quelle scene, davvero. Trovarmi accanto a ognuno di essi, per sentirlo mentre diceva: “Dunque, pur di aiutare delle multinazionali farmaceutiche a fare profitti, il governo è disposto a mettere a rischio le nostre vite e a privarci dei più elementari diritti? È questa la società in cui viviamo?”
E soprattutto per potergli rispondere: “Beh... sì. E' proprio questa la società in cui viviamo. Lo è da un pezzo, solo che tu non te ne eri accorto.”
Sarò brutale, ma è così che la vedo. Con tutta la simpatia per chi ha dovuto sottostare al ricatto sanitario, magari ritrovandosi poi con la salute minata, e per chi non vi si è piegato e ha pagato per questo un prezzo salato (non solo economico, ma anche in termini di ostracismo sociale), non posso dimenticare che, se molti sono letteralmente caduti dal pero, non è stato perché prima del 2019 la nostra società non fosse già profondamente segnata dalla ferocia del potere economico, ma perché da quella ferocia essi, sino a quella data, non erano stati toccati, e quindi non avevano ritenuto di doversi interessare all’argomento.
Altri invece sì, che ne erano stati toccati. Anche un po’ più che ‘toccati’, a dirla tutta. Ad esempio, i lavoratori delle acciaierie. Il settore siderurgico, a partire dagli anni Novanta, è stato oggetto di una sequela di decisioni scellerate, che hanno condotto i grandi impianti statali nelle mani di un’imprenditoria nazionale non all’altezza (per mancanza tanto di risorse quanto di talento), e dunque capace di trarne profitti soltanto attraverso una forsennata compressione dei costi, e di gruppi stranieri che erano diretti concorrenti delle aziende che rilevavano (e che pertanto erano interessati a ridimensionarle, quando non a chiuderle). Risultato: attrezzature lasciate andare in malora, senza alcuna attenzione per le ricadute di una simile situazione sulla sicurezza. E le conseguenze si sono viste.
Tra i tanti incidenti (ma possiamo chiamarli semplicemente cosi?) verificatisi nell’arco di un trentennio, ce n’è uno che mi è rimasto particolarmente impresso: il rogo della AST di Torino. Nel 1994, la Acciai Speciali Terni (non mi sto confondendo: all’azienda faceva capo anche uno stabilimento in Umbria) viene ceduta alla tedesca Krupp (oggi ThyssenKrupp), inizialmente affiancata da alcuni imprenditori nostrani (chiamati a garantire l’italianità dell’azienda; questi ovviamente, poco tempo dopo, rivenderanno a prezzo maggiorato le proprie quote alla stessa Krupp). La AST è un’azienda che dal punto di vista tecnologico ha pochi eguali al mondo, nel settore di appartenenza; ma la Krupp è già un colosso della siderurgia, e ha acquistato la società italiana soltanto per togliere di mezzo un concorrente. Così, nel corso degli anni i due stabilimenti di Terni e di Torino sono oggetto di reiterati tagli alla produzione e al personale, nell’indifferenza dei politici che si succedono al governo. Il sito di Torino viene destinato alla chiusura, e la dirigenza della società ritiene pertanto di potere tagliare con l’accetta le spese per la manutenzione e la sicurezza. Pur di risparmiare qualche spicciolo in più, si arriva a trascurare la ricarica degli estintori. Così, nel dicembre del 2007 le cattive condizioni dell’impianto causano lo scoppio di un incendio, che gli operai sul posto non riescono a domare. Sette di loro sono avvolti dalle fiamme. Uno muore quasi subito, gli altri nei giorni successivi, dopo un’agonia più o meno lunga (nel caso abbiate la curiosità di saperlo, la morte per ustioni è una delle più atroci).
La procura di Torino muove ai vertici ThyssenKrupp l’accusa di omicidio volontario, in ragione della prevedibilità delle conseguenze delle loro decisioni. In risposta, i giornali legati al potere economico sciolgono la catena ai loro prestigiosi editorialisti. Costoro, in buona sostanza, ci ammoniscono in questi termini: “Attenzione! Se si fa passare il principio che un imprenditore non ha il diritto di assassinare i propri operai, c’è il rischio che l’Italia diventi meno attrattiva per gli investimenti esteri.” Al termine dell’iter giudiziario - protrattosi sino al 2016 - le condanne saranno per omicidio colposo, ma ai sei dirigenti sotto processo verranno comunque inflitte delle pene di entità non lieve (per gli standard nostrani, quantomeno).
Lavorare è sempre stata una faccenda pericolosa. Negli anni Settanta, il periodo delle lotte sociali più accanite e fruttuose, i diretti interessati provarono a imporre ai padroni una maggiore attenzione per le condizioni in cui toccava loro operare; ma i secondi hanno poi trovato il modo di tornare a farsi gli affari propri, tra delocalizzazioni, disarticolazione del sistema produttivo tramite esternalizzazioni, precarizzazione contrattuale, eccetera. E così, la fabbrica ha continuato ad essere un campo di battaglia, con una schiera di caduti in azione che continua tuttora a ingrossarsi. Penso a quelli che passano la vita a inseguire i ritmi di una catena di montaggio, e arrivano alla pensione affetti da dolorose patologie scheletrico-muscolari. O a quelli che lavorano negli stabilimenti chimici, e un po’ alla volta vengono avvelenati dai prodotti che realizzano, sino ad ammalarsi di cancro. O agli operai tessili. Che c’è di più innocuo del lavoro nella cara, vecchia manifattura tessile, vi meraviglierete voi. Niente, a patto che il titolare dell’impresa abbia voglia di spendere per la manutenzione degli impianti. Ma questa voglia spesso non c’è, e così gli operai si ritrovano a lavorare con dei telai che non hanno più i blocchi di sicurezza funzionanti, col risultato che ogni tanto uno di essi viene risucchiato e stritolato dal macchinario (di questi episodi i quotidiani danno debitamente conto, giacché il gusto dei giornalisti per le storie raccapriccianti è talmente sviluppato da avere la meglio persino sul loro disinteresse verso le questioni sociali). Vite sacrificate sull’altare della massimizzazione del profitto.
Le premesse, dunque, c’erano tutte da un pezzo. Eravamo già carne da macello, solo che il mattatoio era alimentato unicamente dalla classe operaia, di cui al resto della società non importava niente. Ma ecco che nel 2020 è arrivato il turno di noialtri borghesi. Era prevedibile, badate: dunque non si trattava di essere più ‘empatici’, di saper ‘andare verso il popolo’, ma soltanto di essere più accorti. Il capitalismo occidentale è un treno che ha finito il carbone e per andare avanti deve bruciare i vagoni, arredi compresi: sono anni che le nostre economie oscillano tra stagnazione e recessione, ragion per cui gli imprenditori, per tenere alti i margini di guadagno, devono ormai cannibalizzare l’intero corpo sociale.
Volevo arrivare a dire questo. La pandemia rimarrà per molti il momento della perdita dell’innocenza; ma di una innocenza falsa, fondata su un egoismo che rendeva invisibile tutto ciò che non li riguardava. Adesso, però, la ferocia del tardo capitalismo è divenuta qualcosa che riguarda pressoché tutti. Sapremo trarne le logiche conseguenze? O faremo la fine degli adolescenti tonti degli horror americani, che davanti al pericolo si dividono e uno alla volta vengono beccati del pazzo con la motosega?
Personalmente, non sono molto ottimista, in ragione del fatto che in questo paese dobbiamo fare i conti con una borghesia che è troppo spesso gretta e miope nei suoi orientamenti di fondo. Penso, in particolare, ai titolari delle piccole attività commerciali: questi rientrano fra i perdenti dei processi di globalizzazione e liberalizzazione (subendo la crescente concorrenza delle piattaforme online e delle grandi catene), ragion per cui dovrebbero essere propensi ad assumere atteggiamenti contestatari. E invece no: nel periodo Covid, in massima parte hanno accettato supinamente le restrizioni imposte loro. Credo che il loro ragionamento sia stato: “Va bene, discriminando i non vaccinati perdo una parte della clientela, ma evito grane con le autorità e posso continuare a fare affari con tutti gli altri.” Peccato che poi si siano trovati a subire un danno ben maggiore di quello preventivato. Infatti, quelli che si erano vaccinati perché avevano preso sul serio la propaganda terroristica del governo e dei media si erano rifugiati nel meraviglioso mondo di Amazon, poiché avevano comunque paura del contatto con la gente (non dimenticherò mai un pranzo con un amico piddino, che pretese il tavolo all’aperto in pieno inverno, e per tutto il tempo alternò frasi di condanna per gli ignoranti e irresponsabili no-vax alla descrizione delle precauzioni che continuava a prendere, dopo la duplice vaccinazione, per evitare di contagiarsi); mentre quelli che si erano vaccinati contro la propria volontà, per non perdere il lavoro, odiavano chi si rendeva corresponsabile delle imposizioni governative e ne sabotavano intenzionalmente l’attività. “Ma poi avranno imparato la lezione”, direte voi. Insomma... quando, nel 2022, dall’emergenza sanitaria si è passati a un altro genere di propaganda, quegli stessi esercenti si sono affrettati ad appiccicare alle vetrine la bandierina dell’Ucraina. Chissà cos’hanno pensato quando poi gli è arrivata una bolletta raddoppiata. “Forse allora” insisterete voi, “si sono finalmente resi conto di quanto poco convenga essere così conformisti.” Non ci giurerei. Qualora anche l’isteria russofoba dovesse scemare e riprendesse quota l’emergenza climatica, già ce li vedo a montare la pala eolica sul balcone, per dimostrare una volta di più che loro (esattezza delle dichiarazioni fiscali a parte) sono proprio dei bravi cittadini. Questa è gente che, se il piroscafo su cui viaggia punta dritto contro un iceberg, pensa che la cosa più saggia da fare non sia cacciare gli ufficiali dal ponte di comando, per impossessarsi del timone e cambiare la rotta, bensì correre ad accaparrarsi le scialuppe, lasciando affogare gli altri passeggeri.
Non che gli esponenti della borghesia intellettuale siano tanto meglio, beninteso. A loro piace sentirsi dalla ‘parte giusta’, ragion per cui si allineano acriticamente alle direttive che provengono dai ‘grandi’ uomini di pensiero e dai ‘grandi’ giornali. Anche quando ciò che i ‘grandi’ vogliono, palesemente, è la rovina dei ‘piccoli’ come loro.
C’è inoltre un problema di fondo, consistente nel fatto che tanta parte del ceto medio italiano proprio non si sente ‘piccola’: ovvero non si percepisce come una componente del popolo, bensì si identifica spiritualmente con le classi alte. L’impiegato pubblico, che per via del suo basso stipendio deve vivere in un quartiere malpopolato e il sabato sera prega che la figlia torni a casa illesa, si sente vicino allo scrittore di successo e ne approva le intemerate contro i critici dell’immigrazione; il bottegaio che fatica ad arrivare a fine mese si sente poco meno che un Berlusconi e si indigna se qualcuno propone una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Questo diffuso peccato d’orgoglio rende ancora più facile, per i gruppi sociali dominanti, badare al proprio esclusivo interesse: peggio si comportano, più chi sta sotto di loro approva. Siamo un paese di buoi che si credono azionisti del macello.
Ma prima o poi (meglio prima che poi) dovremo impararla tutti, la lezione di questi anni (di questi ultimi 45 anni, beninteso, non degli ultimi 5). C’è un noto sermone, che con qualche cambiamento si adatta a tante situazioni, rimanendo sempre attuale epoca dopo epoca… proviamo a farne una versione contemporanea?
Prima vennero per quelli col reddito di cittadinanza, e io ne fui contento, perché erano dei parassiti.
Poi vennero per gli operai, e io ne fui sollevato, perché erano fastidiosi con tutti quegli scioperi.
Poi vennero per gli statali, e io non ebbi da obiettare, perché erano dei fannulloni.
Poi vennero per i pensionati, e io ne fui rassicurato, perché toglievano risorse ai giovani.
Poi vennero per i giovani, e io approvai, perché dove stava scritto che dovevamo garantirgli un posto fisso?
Ma poi vennero per me, e non era rimasto nessuno a protestare.

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